Doveroso intervento su un argomento che ho già affrontato, a costo di venirvi a noia, ma che mi serve per introdurre un discorso nuovo sulle serie tv in ambito accademico.
Sta per arrivare la nuova STAGIONE di The Walking Dead.
E vedremo anche gli episodi della nuova STAGIONE di Agents of S.H.I.E.L.D.
Ah, e prossimamente FOX trasmetterà anche la seconda STAGIONE de Le regole del delitto perfetto.
Mi permetto di insistere perché mi sono resa conto di una cosa: il termine "serie" per le stagioni (cioè i vari cicli di episodi), da quache tempo è stato ufficiamente sdoganato per i prodotti UK.
Perché gli inglesi usano "series" invece di "season", il che rende corretto parlare di "nuova serie" di "Sherlock", per fare un esempio.
Le serie inglesi, francesi, tedesche e italiane usano il termine "serie".
Eppure la confusione sui termini persiste. Vi spiego perché
Sulle serie tv, prodotto di gran moda in ambito accademico negli ultimi anni, si è detto e scritto quasi tutto. Sulla loro storia e sulla terminologia che le riguarda, intendo.
Ecco perché bisogna inventarsi qualcosa di nuovo: per avere nuovi argomenti di cui informare gli studenti. E magari per scriverci sopra un bel libro da inserire in bibliografia nel corso.
Non è cinismo, il mio: è solo una testimonianza da parte di chi lavora nel settore da un decennio.
Serialità contro post-serialità (concetto che in ambito professionale non esisteva: se lo sono inventato nelle Università).
Serial contro serie (vecchissima distinzione decaduta da anni, che ancora viene spiegata nei corsi e compare nei testi, ma non con la dicitura "vecchissima distinzione").
Episodio contro puntata (distinzione introdotta, ancora una volta, in ambito universitario, mentre in ambito professionale i due termini si erano sempre usati indifferentemente, come sinonimo).
Sono solo tre esempi del caos generato dalla necessità di decostruire termini, inventarne di nuovi, identificare correnti innovative in un prodotto che ha già trovato la sua definizione.
Sdoganare "serie" per i prodotti inglesi, per esempio, fa parte di questa corrente: si traduce correttamente l'inglese "series" mentre per anni - in Italia, e in Università - si è ignorata la traduzione di "season".
Controsensi accademici? Sì.
Perché negli altri Paesi le serie tv si studiano analizzando i prodotti e le innovazioni, il linguaggio e il ritmo, le tecniche di sceneggiatura e il simbolismo, il ritmo del montaggio e l'aspetto psicologico nel processo di identificazione. Ma non si questiona sui termini. Al massimo, si discute sulle novità (anche queste "vecchie" di qualche anno), per esempio nella definizione dei generi ("dramedy" dieci anni fa non esisteva), ma nulla di più.
In Italia invece, come al solito, si fa casino.
Si sdogana "serie" al punto che si continua a usare lo stesso termine per i prodotti made in Usa, commettendo un errore.
Fino al momento in cui qualche accademico deciderà che "stagione" è sbagliato e ci scriverà un libro.
E non è finita qui. C'è un'altra tendenza: pubblicare le tesi universitarie. Nude e crude. E a pagamento, possibilimente. Un centinaio di scarso di pagine che dovrebbero, secondo l'editore, "sviscerare ogni aspetto del cinema di Stanley Kubrick". In cento pagine?!
Diverse piccole case editrici contattano i laureandi, specialmente quelli che hanno scritto delle tesi su cinema, fumetti, videogame o serie tv - argomenti legati all'intrattenimento insomma - per pubblicare i loro scritti. Senza revisioni, senza editing, senza alcun controllo del contenuto.
In questo modo, ignari studenti che hanno fatto un buon lavoro di ricerca diventano "autori" di testi che per il mercato risultano incompleti, e ricchi di imprecisioni che qualsiasi editore preparato in quel campo avrebbe potuto correggere.
Il risultato? Si inonda il mercato di prodotti inadeguati, si svilisce il lavoro del laureando, si compromette - paradossalmente - lo stesso ambiente che ha generato quel testo, banalizzando il livello di studio del fenomeno (della tal serie, o del tal genere cinematografico, e via dicendo).
Con buona pace di chi incassa i soldi dall'ignaro laureando che, giustamente, ha interesse a vedere pubblicato il suo lavoro, e non certo un interesse economico.
E con buona pace di chi, su quegli scritti "pubblicati", si basa per creare i propri corsi, spacciando per proprie teorie altrui (siamo in Italia, il Paese dei "furbetti", no?), appropriandosi di materiale di cui non si hanno i diritti, elaborando innovative teorie terminologiche per rimediare alla "carenza" prodotta da quello stesso ambiente.
In una spirale senza fine che toglie dignità al lavoro degli studenti e ai prodotti che ne escono con le ossa rotte.
Perché siamo nel Paese dei "furbetti"...
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