Ma non autoimmune, stavolta.
Ho la malattia della bici.
Più o meno sei mesi fa, come un fulmine a ciel sereno, ho rimesso il culone su una sella dopo quasi trent'anni.
Dopo anni di ricoveri in ospedale e di giornate a letto, passate a guardare il mondo attraverso la finestra, grazie a un insieme di molti fattori (radicale cambio di alimentazione, di medico, di terapie, di stile di vita) e agli anni che ci sono voluti perché divenissero efficaci, oggi sono più i giorni all'aperto di quelli a
letto.
La bici mi ha resa di nuovo libera, mi ha rimesso in contatto con la natura, mi ha restituito quella felicità semplice e immediata che mi mancava da tempo.
Resto sempre io, è chiaro: io, con la tiroide a rane e l'intestino a farfalle, io, con l'artrosi di una novantenne e gli immunosoppressori a dosi da elefanti, io, con le tendiniti da cortisone e la cervicale saldata.
Una volta queste cose mi avrebbero fermata. Ora esco in bici con 2 gradi (e nemmeno coperta come un'eschimese!) perché, quando la malattia non mi ferma fisicamente, non può più farlo nemmeno psicologicamente.
Ed ecco che entra in scena il Maestro Miyagi.
Il coniuge ha conosciuto un maestro di MTB (esistono, giuro: anch'io pensavo fossero creature mitologiche tipo le sirene o gli unicorni). Ha pedalato insieme a lui durante un'uscita notturna in MTB. E gli è piaciuto. "È proprio un brav'uomo", mi ha detto.
Così è scattata, automatico, la pensata: e se andassi a scuola di bici?
Voi penserete che sia ridicolo, per una della mia età e nelle mie condizioni fisiche, ma io sono appena rientrata dalla mia prima lezione e già mi si è aperto un mondo.
Ho imparato che diavolo è la "pedalata rotonda" di cui sento parlare da mesi su Bike Channel.
Ho fatto esercizi di equilibrio che francamente non pensavo proprio di poter affrontare.
Sono caduta - certo che sono caduta - ma sono caduta in piedi. Mi sono sganciata dai pedali, ho messo giù il piede destro e con la gamba sinistra ho scavalcato la bici. Lei è finita a terra, io no. It's a kind of magic.
Il Maestro Miyagi - il cui nome di battesimo è Luca, e la cui scuola di bici è questa - ha mostrato grande pazienza. Non è che solo perché sei cicciona, pallida e dolorante s'impietosisca, ecco.
Quando mi aspettavo il "okay, basta", lui andava avanti. E pure io, se potevo.
Ordinare al tuo cervello di pedalare in un certo modo - dopo che l'hai sempre fatto in maniera diversa - richiede una concentrazione che non mi aspettavo.
Imparare a frenare come si deve, costringersi a fare esercizi di equilibrio che potrebbero farti finire col culo per terra, e soprattutto fidarsi di uno sconosciuto richiedono una certa dose di volontà.
Io ho scoperto di averla.
Sono una fifona, non è un mistero, se mi trovo al di fuori della mia comfort zone.
Ma ho superato la paura affidandomi alle parole di un uomo mai visto, perché il Maestro Miyagi è uno che ispira fiducia.
Si capisce subito, quando inizia a spiegarti le basi, che sa il fatto suo.
Si capisce subito, guardandolo mentre parla, che ama davvero quello che fa.
A quel punto, trovandotelo di fronte, hai due possibilità: storcere il naso, eseguendo gli esercizi che ti impone per poi tornare a fare come vuoi tu, o affidarti alla sua esperienza, concentrarti e tornare a casa faticando come una bestia per non interrompere mai la dannata pedalata rotonda.
Io ho scelto la seconda.
E anche se quando mi ha anticipato gli esercizi della prossima lezione mi è venuta tanta voglia di scappare e non vederlo mai più, alla fine tornerò da lui.
Cadrò ancora, poco ma sicuro.
Magari non avrò la prontezza di cadere in piedi.
Ma se c'è una cosa che ho imparato nella vita è che quando cadi devi rialzarti.
Tornare in sella.
Superare le tue paure.
Allargare i tuoi orizzonti e capire che non è mai troppo tardi per imparare.
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