lunedì 21 marzo 2016

Fiction e serie TV: America mia, portami via!

"Sarà una provocazione, ma io AMO la fiction!".
A dirlo era il grande René Ferretti, il regista de "Gli occhi del cuore 2".
Ovvero il personaggio di Francesco Pannofino in quel capolavoro di Boris.
Uno dei rari, rarissimi capolavori televisivi tutti italiani.
Una sitcom ambientata sul set di una soap opera, per prendere in giro la produzione italiana televisiva.
Ogni elemento che ha fatto di Boris un successo di critica e pubblico è, come nella migliore tradizione della satira, fondato sulla realtà.
Attori incapaci che si atteggiano a star internazionali.
Tecnici che fanno il minimo indispensabile, mentre si dedicano ad altre occupazioni.
Sindacalisti che fanno minacce assurde.
Lavoratori onesti che vengono sfruttati impunemente.
Del resto anche Gomorra, altro italico capolavoro del piccolo schermo, si fonda su una (spaventosa, triste, immorale) realtà.
Il suo successo deriva dalla bravura degli interpreti - che per una volta recitano come si conviene per il mezzo, senza portare in TV (o al cinema) la recitazione "falsa" ed esagerata del teatro.
E i dialoghi non sono da meno: la gente parla come farebbe nella vita reale.
E con una sola serie, abbiamo già risolto i due maggiori limiti delle produzioni italiane: la recitazione e i dialoghi.
Anche i nostri attori migliori, quelli che fanno furore in teatro, in TV e al cinema, spesso, falliscono.
Perché da noi non c'è una vera cultura dell'attore "da schermo": il vero, grande e ammirato attore, per tradizione, è quello del teatro.
Ma la recitazione teatrale è completamente diversa da quella televisiva e cinematografica: laddove si alzano i toni per farsi sentire dal pubblico in sala, bisogna bisbigliare.
Laddove si compiono gesti plateali per essere chiari a tutti, basta uno sguardo.
Laddove si fanno delle pause drammatiche, bisogna essere verosimili.
Durante i seminari di direzione degli attori, fatti fare a noi sceneggiatori e registi della Scuola di Cinema con gli allievi della Paolo Grassi a Milano, le indicazioni erano chiare: dovete impedire al bravo attore di teatro di fare l'attore di teatro.
Per qualche oscura ragione, a chi realizza produzioni televisive italiane, evidentemente nessuno l'ha detto.
Eppure basterebbe poco, per capirlo.
Perché quando la recitazione non funziona, i casi sono due: o siamo di fronte a gente che recita in teatro e non smorza abbastanza i toni quando è in TV, o siamo di fronte a gente che, semplicemente, non sa recitare.
Non sapere recitare enunciando dei versi artefatti, poi, dà il colpo di grazia.
La prima regola dello sceneggiatore è: sii credibile.
I dialoghi devono essere verosimili, composti da vocaboli e cadenze pari a quelle che adotteremmo nel contesto reale.
Se siamo sul set di Gomorra, il dialetto è il benvenuto. E rende tutto più reale, immediato, credibile.
Se siamo sul set di Boris, parliamo come mangiamo. E lo scopo è raggiunto.
Per altre oscure ragioni, gli sceneggiatori italiani sparano troppo in alto.
Italiani: popolo di navigatori, artisti e poeti.
Vai a spiegare a uno sceneggiatore che no, non è un poeta.
Il problema, dunque, sta nel metodo, che si è consolidato in base a una lunga (e apparentemente vivissima) tradizione.
Si spara alto coi dialoghi. Si fanno assurde pause drammatiche teatrali. Si esasperano toni e gesti, come se il pubblico fosse in sala e dovesse sentirci bene anche dalle ultime file.
Si fa, in pratica, la FICTION.
Le serie TV sono un'altra cosa.
Si basano su un modello di sceneggiatura diverso, fondato sul metodo americano.
Quello che sostituisce dialoghi ridondanti con più efficaci azioni, che mantiene il modo di esprimersi fedele al contesto e che dà largo spazio all'azione, ricordandosi che porta avanti una narrazione per immagini.
La fiction, invece, spara alto coi dialoghi, vuole le pause drammatiche, rinuncia alla verosimiglianza e punta tutto, ma proprio tutto, sul fascino dei protagonisti.
A volte non basta nemmeno quello. Pare infatti che l'ultima fiction con Gabriel Garko sia veramente agghiacciante. Io non lo saprò mai, ho troppe serie... serie, da vedere.
Ho dedicato molti giorni, a suo tempo, a studiare la fiction italiana.
Sono stata sui set: alla Scuola di Cinema ci portavano sui set per farci vedere cosa NON si doveva fare.
E c'è un motivo se, pur essendo sceneggiatrice diplomata, lascio che siano gli sceneggiatori spesso improvvisati a scrivere per la TV.
Io preferisco stare dietro le quinte, analizzare i meccanisimi della scrittura, recensire ciò che funziona e che non funziona in prodotti di qualità. Americani e inglesi, quindi.
Ho scritto per la TV italiana, moltissimi anni fa. E mi sono sentita dire che il risultato era troppo "alto", troppo americano, troppo poco "Bagaglino" per far ridere il pubblico italiano.
Lungi da me, quindi, l'idea di scrivere ancora qualcosa per un sistema televisivo che è anni luce indietro rispetto a quello che, giustamente, domina il mercato.
Perché io so bene di cosa parlo: l'ho studiato a fondo, con mezzi professionali, e ne ho fatto un lavoro.
Perché io credo fortemente nella capacità dei prodotti di qualità di far riflettere, ispirare, emozionare.
E perché "sarà una provocazione, ma io DETESTO la fiction"...

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