domenica 28 febbraio 2016

La dura vita dello scrittore (e del giornalista)

Ho sempre pensato che la capacità di mettersi in discussione sia l’elemento che fa la differenza fra migliorare nella vita e nel lavoro, oppure scegliere di restare sempre uguali a se stessi.
Tutti noi cresciamo, inevitabilmente.
Ho appena compiuto quarantuno anni e non me li sento per niente, a volte. In altre occasioni, mi accorgo di fare e pensare “cose da quarantenni”, in modo naturale.
Scrivere è la stessa cosa: se sei uno scrittore, a volte ti accorgi di aver prodotto qualcosa di nuovo, in altre occasioni ti sembra di essere ancora il ragazzino aspirante giornalista o scrittore, o critico, di una volta.

Credo che sia tutta questione di misura: l’equilibrio fra obiettivi, esperienze e confronto con gli altri ci permette di migliorare. Quando quell’equilibrio manca, allora la situazione si fa delicata.
Tempo fa, come mi capita frequentemente, ho ricevuto una richiesta: un amico di social network mi ha chiesto di leggere il suo primo romanzo, per poi dirgli cosa ne pensavo.
Io l’ho fatto, diligentemente: ho preso appunti, li ho riportati nella mia recensione, ho inserito una serie di consigli per migliorare il testo e risolvere i problemi e glieli ho inviati. In via privata.
Risultato: mi è stato risposto che il testo “andava già bene così” e che probabilmente non l’avevo capito (possibile, non lo escludo, ma la grammatica la capisco e lì mancava anche quella).
Mi è stata tolta l’amicizia da social network e, anni dopo, mi è stato riproposto il medesimo scrittore su pagine altrui. Il medesimo scrittore che, oggi, si spaccia per scrittore consumato e ispirato, con la “missione” di condividere la sua arte con noi comuni mortali.
Ahia. 
Eccone uno.
Lo scrittore semi-dio. E con questo termine non intendo riferirmi ai veri, grandi scrittori, che magari hanno deciso di isolarsi, o hanno vissuto isolati, per dedicarsi completamente alla loro arte senza guardare in faccia nessuno.
No, lo scrittore semi-dio è quello che in gergo (scherzoso e sgrammaticato) si definisce il “nato imparato”. Ovvero colui che alla sua opera prima, che di solito arriva in tarda età dopo che una mattina si è svegliato e ha deciso di fare lo scrittore, sa già tutto. Non commette errori, e se li commette non sono importanti.
Cosa sarà mai un’acca di più o di meno, quando ho qualcosa da comunicare?
Eh.
Magari non sarà tutto, ma sicuramente è già qualcosa.
Lo scrittore semi-dio, scrittore da cinque minuti, è una fase che tutti noi che scriviamo, nella vita, attraversiamo. Ḕ una tappa obbligata, non se ne esce: scrivi qualcosa - un racconto, una poesia, un romanzo, un saggio, un tema - e ti piace. Ti piace così tanto che pensi: “Oh, cavolo. Ho qualcosa da dire. Sono uno scrittore, magari. E quell’idiota della mia professoressa alle superiori non l’aveva capito”.
Primo errore. Maestri, insegnanti e professori, di solito, riconoscono uno scrittore quando ne vedono uno. E, pur criticandolo per aiutarlo a migliorare, fanno in modo di lasciarglielo intendere. Con me l’hanno fatto.
Se a scuola di dicevano che non sapevi scrivere, e te l’hanno ripetuto per otto o nove anni, probabilmente avevano ragione. Ma tu hai appena deciso di essere uno scrittore, perciò non te ne curi. Anzi, covi rancore.
Si tratta solo del primo di una lunga lista di errori, che vi risparmio per arrivare al sodo, all’errore più grave: non accettare le critiche.
Ben inteso, se le critiche sono sensate. Se qualcuno legge le tue poesie e ti dice “Fanno schifo” o “Non le capisco”, non ti è di grande aiuto. Solo un vero recensore lo sarà.
Ciò significa che non bisogna dar retta a tutte le critiche che si subiscono, ma a una grande quantità di esse sì. Purché provengano da qualcuno che ha gli strumenti per fartele, come un collega scrittore, come la tua professoressa d’italiano, come un amico che legge molto e, magari inconsapevolmente, ti aiuta a scovare subito i punti deboli del tuo lavoro.
Le critiche si dividono in critiche costruttive e gratuite non sulla base di quanto ci dicono, bensì sulla base di chi ce le muove. Questa è la prima cosa da sapere. E no, non intendo dire che l’ex amico avrebbe dovuto ascoltarmi perché gli ho mosso delle critiche sensate. Intendo dire che l’ex amico avrebbe dovuto ascoltarmi innanzitutto perché ha chiesto esplicitamente il mio parere.
Vi svelo un segreto: pubblicare un libro equivale a chiedere il parere dei lettori, di tutti i lettori. Di chiunque lo legga. Anche di quelli che non hanno gli strumenti per capirlo.
Accettare le critiche, invece, equivale a riconoscere una fonte degna d’essere ascoltata, e non significa che debba essere un critico famoso o un collega che stimi: può essere chiunque perché, motivando le sue osservazioni, ti fornisce degli ottimi spunti di riflessione.
Alla fine del 2011, quando scrissi “Marley chi? La mia vita con tre Labrador” scrivevo già da diverso tempo, ma si trattava anche della mia primissima “escursione” al di fuori della saggistica.
Si trattava di un progetto di beneficenza, autopubblicato, e in fretta. Nonostante mi fossi accorta di alcuni refusi, lasciai che il testo andasse in stampa così: m’interessava la sostanza, in quel caso.
Oggi, svariati libri e svariati editor dopo, ho ripreso in mano il testo. Le copie cartacee sono esaurite da tempo, le cose sono cambiate e io sentivo il bisogno di aggiornare il mio racconto.
Soprattutto, però, sentivo il bisogno di migliorarlo, grazie alla critica di una lettrice che non conosco e che mi ha fatto notare una cosa: mancava un finale vero. Mancava la conclusione di un viaggio.
Così, nel lavorare alla nuova edizione, che ha trasformato “Marley chi?” in un libro diverso (in arrivo) ampliato in tutte le parti e inedito in molte altre, ho aggiunto anche una conclusione vera e propria.
Ho fatto tesoro di una critica non esplicitamente richiesta, che mi ha fatto riflettere e mi ha fatto rileggere il mio lavoro di qualche anno fa col senno di poi. E il senno di poi ne sistema, di ingenuità e di piccoli errori, credetemi.
A patto che lo si sappia ascoltare.
Quando mi è capitato di fare errori nei miei articoli (per esempio invertendo il nome del personaggio e dell’attore che lo interpretava: Mark Hamill, interpretato da Luke Skywalker :-D), ho sempre ringraziato chi me lo faceva notare nei commenti. E ho segnalato di aver corretto il testo grazie a quel suggerimento.
Le sviste possono sparire facilmente dal web, basta aggiornare il pezzo. Così, però, sarebbe troppo facile: se è stato qualcun altro, a farti notare la svista, lo si sottolinea: “Grazie mille, correggo subito”.
Non è difficile. 
A patto di non essere uno scrittore che non è mai uscito dalla fase (della durata massima consentita di sette giorni) del semi-dio.
Capito, caro ex amico?

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