Un mese ricchissimo di letture (ben 12 libri!), con qualche (rara) soddisfazione e parecchie delusioni. Un mese, in effetti, all’insegna di uno sgradito “la grammatica, questa sconosciuta” che mi ha ispirato questo post. Sarà che tutti in fila, uno dopo l’altro, i romanzi con gli errori mi hanno esasperata. Sarà che non basta pubblicare un libro per essere uno scrittore.
Fatto sta che ho fatto veramente fatica a finire molti libri di questo mese. E credo che saranno ben pochi, d’ora in avanti, gli autori esordienti che leggerò senza prima penarci bene. Perché, quando si scrive, la forma non è secondaria. Non esiste il diffuso, ahimé, concetto “la forma passa in secondo piano, se ci sono dei buoni contenuti”, perché non esistono contenuti “buoni” scritti male. Senza contare il fatto che, in parecchi casi letterari di questo mio giugno disgraziato, non c’era nemmeno il contenuto…
Heysel: Le verità su una strage annunciata di Francesco Caremani
Ho iniziato a leggerlo poco dopo il trentennale della strage all’Heysel, che ricordo di aver visto in tv - avevo dieci anni - senza capire cos’era successo, eppure senza mai dimenticare quelle immagini.
Questo non è un saggio, né una riflessione dell’autore; è una raccolta di testimonianze che lo rendono toccante, certo, ma anche povero dal punto di vista dell’organizzazione del materiale, che avrebbe evitato le continue ripetizioni (alla sessantesima volta in cui si legge “Norg…, l’allora ministro dell’interno belga” ci si sente trattati come degli smemorati). Le ripetizioni sono davvero troppe. Da un lato, sembra che si voglia “allungare il brodo” dopo una premessa che prometteva ben altro. Dall’altro, l’impressione è che si scelga deliberatamente di ribadire sempre e solo le stesse cose: la responsabilità è dell’Uefa per la scelta dello stadio (sì, certo che lo è), del Belgio per l’inadeguato servizio di sicurezza (ovvio anche questo: nello specifico si parla molto del ministro dell’interno, della polizia, dei medici che hanno confuso i corpi, degli oggetti personali scomparsi, della fretta irrispettosa delle autopsie, dei referti di “morte accidentale”, dei mancati controlli all’ingresso). Tutte questioni che in trent’anni erano già state sottoposte alla nostra attenzione. Avrei gradito qualche riflessione dell’autore, mi sarebbe piaciuto che “tirasse le somme” e che facesse più attenzione a non fare un collage di pezzi precedenti: una rielaborazione sarebbe stata più soddisfacente per il lettore. Detto ciò, non si può evitare di emozionarsi con gli interventi (per quanto l’autore, ancora una volta, ne selezioni di molto simili fra loro) di Otello Lorenzini, amico di famiglia di Caremani, che in quella sera maledetta perse il figlio. Questo libro rievoca un incubo che turba, ma lascia l’amaro in bocca per l’eccessiva superficialità con cui è stato trattato il materiale.
Il signore delle mosche di William Golding
Non stupisce che, con un esordio letterario come questo, Golding abbia finito per conquistare il Nobel per la Letteratura. Perché “Il signore delle mosche” solamente in superficie racconta l’avventura di un gruppo di ragazzini, naufraghi su un’isola deserta. La trama - e sfido chiunque abbia visto Lost a non riconoscere l’ispirazione: disastro aereo, isola misteriosa e leggende su creature mostruose - è solo il pretesto per parlarci di ciò che distingue un’avventura “semplice” e una che lascia il segno: la natura umana.
A maggior ragione, l’analisi dell’umanità lascia il segno se a mostrarcela in tutti i suoi aspetti positivi e negativi sono ragazzini “innocenti”, non ancora corrotti dalla società. Ciascuno di loro si evolve o involve, a seconda del carattere e delle proprie scelte personali, per diventare una persona diversa da quella a cui l’isola aveva offerto la salvezza. Perché la salvezza vera, qui, è quella dell’anima, che traccerà il destino di molti dei personaggi. Non voglio dire troppo per lasciare la libertà di recuperare questo romanzo a chi, come me, non ha avuto l’occasione di leggerlo da ragazzo.
Da adulti, questo è indubbio, lo si apprezza ancora di più per la profondità dell’indagine psicologica, per i colpi di scena, per la modernità del linguaggio e delle tematiche. Da ragazzi si ama per l’avventura, la suspense e i personaggi: giovani esseri umani con tutte le loro imperfezioni. Giovani che porteremo sempre con noi, dopo averli incontrati sull’isola. Sia che li abbiamo incontrati da ragazzi, sia che ci sia successo da “grandi”.
Il vangelo secondo Lebowski di Oliver Benjamin e Dwayne Eutsey
“Come nella Bibbia, sapete. La Legge del Tappetone. Occhio per occhio, pisciata per pisciata”.
“Ovviamente il Grande Lebowski si rifiuta di rimborsare al Drugo il tappeto macchiato, dandogli dello “sbandato. Ma invece di sprecare le sue energie per polemizzare, il Drugo replica “Ma vaffanculo” e se ne va. Malgrado l’espressione triviale, è di buonumore.”
Credo che bastino queste due citazioni per affermare quanto segue: un libro geniale, per un film geniale. Io sono una di quei fortunati che “Il grande Lebowski” l’hanno visto al cinema (tre volte, per la precisione, nel mio caso). All’epoca studiavo Cinema e l’ho riconosciuto subito, è stato amore a prima vista. Sapevo che Drugo (il “dude” che in Scrubs e Lost viene tradotto con “coso”) era uno di quei personaggi che entrano a far parte della cultura pop venti secondi dopo aver fatto il loro ingresso sulla scena.
Al supermercato, in vestaglia e ciabatte, per pagare un cartone di latte con un assegno postdatato, c’è un uomo che ha fatto del “take it easy” la sua filosofia di vita. Una filosofia che questo libro riprende, in modo esilarante ma sempre intelligente, per esaminare il “dudeismo” e la “drughità” con tutti i loro pregi (molti) e i loro difetti (nessuno). Un libro da leggere e rileggere, scritto con garbo nonostante le frequenti volgarità (riportate), che permette di apprezzare ancora di più il capolavoro dei fratelli Coen e l’originalità di un film il cui senso è solo uno: “La vita è molto più complicata e imprevedibile di un film hollywoodiano “standard”: assomiglia più al Grande Lebowski. Intanto perché la trama non ha senso. […] La vita è una scia infinita di scherzi strani, problemi linguistici e bastardi che fanno il doppio gioco”. Proprio come la vita di Drugo.
American Sniper
Ecco uno dei rari, rarissimi casi in cui il film è meglio del libro. Perché Chris Kyle, interpretato da Bradley Cooper, è molto più umano e comprensivo, sullo schermo, rispetto a quanto appare sulla carta. Soprattutto, è parecchio meno esaltato.
Kyle scrive che ci sono libri, documentari e film sui Navy SEAL. Io li ho visti e li ho letti, quindi so cos’è la Hell’s Week. So come si svolge l’addestramento. So che i SEAL vengono addestrati a uccidere. Ciò premesso, l'atteggiamento da superuomo che fa da filo conduttore al racconto di Kyle risulta a tratti insopportabile e banalizza il contenuto. Perché “American Sniper” è un libro “duro”, scritto da qualcuno che ha idee molto precise sulla guerra e sulla morte. Qualcuno che, giustamente, afferma che la guerra non la conosci se non ci sei stato. Concordo, ma resta il fatto che bastava già la crudezza del contenuto, a colpire. Non serviva anche ripetere continuamente che i SEAL sono dei duri, che se li guardi storto ti spaccano la faccia, che hanno la reputazione di credersi superiori a tutti ma si tratta di una reputazione infondata.
Chris Kyle è un SEAL, un uomo che ha posto la patria e i commilitoni al di sopra della moglie e dei figli. Un uomo che non ha mai messo in discussione la guerra che ha combattuto, nemmeno per un istante. Un uomo che lascia emergere da ogni riga l’alta considerazione di sé (quando incontra la moglie pensa che quella bella ragazza possa essere “al suo livello”). Perché? Facile: perché gli hanno insegnato a essere così. L’hanno addestrato a credersi invincibile e superiore agli altri per sopravvivere, e per riuscire a dormire la notte. Perché Chris Kyle è il cecchino (sniper) con il maggior numero di uccisioni all’attivo nella storia della Marina americana. E lo è diventato solo perché gli hanno insegnato a essere un esaltato, uno che non può fare a meno di combattere, uno che crede di aver avuto il diritto e il dovere di piazzare ogni singolo colpo. Fra i molti, moltissimi che ha messo a segno nel corso della sua carriera.
Il cerchio aperto di Alberto Serra
Confesso di essere stata sul punto di abbandonarlo, questo romanzo, intorno al 7-8 per cento (mi baso sulle indicazioni del mio Kindle, non chiedetemi di quante pagine sto parlando). Volevo mollare perché i refusi “scappano” a tutti e non sono un problema, ma un “gli” al posto di “le”, e due passaggi di 7-8 righe senza uno straccio di punteggiatura mi avevano già fatto vedere rosso. Senza contare le americanate, tipiche dello scrittore non professionista (citare once e far dire “bingo!” a un italiano sono errori da non professionisti). Per non parlare dei dialoghi inverosimili, troppo affettati, con modi di dire contraddittori. I dialoghi devono avere il sapore di conversazioni “vere”, con un linguaggio verbale distinto da quello che le accompagna. Nessuno scrittore esordiente se ne rende conto, e scade nelle frasi pronunciate da personaggi che nella vita vera non troveremmo mai. Ciononostante, ho tenuto duro perché, sebbene questi difetti persistano (ma meno frequentemente rispetto all’inizio), la trama è avvincente e l’alternanza del racconto, che si occupa di vari personaggi le cui vite sono intrecciate, dà ritmo al tutto. Restano espressioni “brutte” da leggere, come “buttare sangue”, “mandare a dire dietro”, “il carnato” anziché “l’incarnato”, “uscire fuori” e via dicendo. Inoltre (e qui, per forza, devo fare uno spoiler: attenzione!), si sceglie di “spiegare il male” con cause fisiologiche che vanificano tutto l’impegno precedentemente infuso nella delineazione di una personalità malvagia.
Piante aromatiche e medicinali in giardino e in vaso (Giunti Demetra)
Mi sono data alle piante aromatiche, coltivate in vaso sul terrazzo così ho pensato di farmi una cultura per prendermene cura al meglio. Questo manuale è piuttosto completo, soprattutto per i neofiti. La parte iniziale spiega tutto ciò che serve per coltivare le erbe aromatiche in generale, per poi passare a un elenco di piante con caratteristiche, necessità (annaffiatura, esposizione) e usi (in cucina e per le proprietà terapeutiche) di ogni aromatica selezionata. L’elenco è piuttosto completo, ma avrei preferito che ci si soffermasse di più su alcune piante molto comuni (il basilico viene liquidato superficialmente con un “difficile riassumerne i molti usi in cucina”). Mancano alcune piante, come ad esempio la liquirizia (che io ho trovato al supermercato).
La parte finale suggerisce come evitare gli errori più comuni e risolvere eventuali problemi.
Utile, insomma, ma piuttosto generico.
Ah… Ahh… Ahhh di Nwanda
Mi è stato segnalato dall’autrice (o autore, non saprei: lo pseudonimo non aiuta a capirlo), che ha suscitato la mia curiosità. È bastato il commissario Loquace a incuriosirmi, insieme al paese con tutte le strade a senso unico (anche se “Doppio Senso” è un po’ troppo inverosimile anche per un romanzo, come nome per una cittadina). Credevo che mi sarei trovata alle prese con un racconto simile, in qualche modo, al mio romanzo breve umoristico, “I rompicoglioni non muoiono mai”. In realtà, questo non è un romanzo comico. Ci sono delle trovate simpatiche, è vero, ma sono limitate a qualche battuta nei dialoghi (a doppio senso, prevalentemente, appunto). La sinossi trae un po’ in inganno, secondo me: non è subito chiaro come l’intento dell’autore sia quello di scrivere un giallo. L’inizio è intrigante, ma poi tutto avviene troppo in fretta. Si tratta di un romanzo breve, una novella in cui il colpevole del crimine attorno a cui ruota l’intera vicenda è facilmente individuabile. Bastava poco a rendere il tutto più sorprendente. Bastava tenere presente una delle regole più note del genere giallo: se tutti i sospettati sono “in pubblico”, o in qualche modo citati durante le indagini, l’unico che viene “lasciato da parte”, dopo esserci stato presentato, sarà necessariamente l’assassino. Si tenta di depistare il lettore, dunque, ma il tentativo è vano. Peccato, perché le potenzialità ci sono, anche se la prosa è acerba. C’è un indulgere nell’aggettivo, tipico degli scrittori esordienti, che rallenta la lettura e rende il ritmo pesante. In quattro righe ne ho trovati addirittura cinque: ci sono più aggettivi (troppi aggettivi!) che azione, insomma. Rivedendolo con più cura, e costruendo lo svolgimento con delle tappe di azione precise, il risultato sarebbe stato nettamente migliore.
Chiudi gli occhi di Simona Fruzzetti
Lo critico aspramente, a ogni occasione, eppure ci casco anch’io. Con tutte le scarpe. Ebbene sì: mi sono imbattuta in un romanzo rosa. Con due attenuanti: prima di tutto era “gratis” in Kindle Unlimited, e poi la trama non lasciava per nulla pensare a un romanzo rosa. Sono stata attirata in una trappola, con la promessa di un giallo o quantomeno di un romanzo drammatico, e mi sono trovata fra mucche che partoriscono e aitanti psichiatri senza maglietta pronti ad assistere nella stalla la bella veterinaria rimasta vedova. Mi hanno fregata con la sinossi (questa: La vita di Jordan O'Neill, medico veterinario della contea di Galway, in Irlanda, è segnata dalla morte del marito Philip. Quello che fu archiviato come tragico incidente viene rimesso in discussione alla scoperta, mesi dopo, di una collanina rinvenuta tra gli effetti personali dell’uomo […] Per Jordan inizia così una ricerca personale della verità, che la porterà suo malgrado ad affrontare fantasmi del passato e soprattutto a fare i conti con un segreto tenuto nascosto per più di vent’anni). Mi sono accorta praticamente subito di essere stata tratta in inganno, ma sono arrivata lo stesso fino in fondo: detesto abbandonare i libri già iniziati, a meno che siano proprio illeggibili. La mia fatica, però, non è stata premiata. Troppe incertezze nella scrittura (“sudice" senza “i”, speacker con la “c” - ed è ambientato in Irlanda - “capace a” anziché “capace di”, giusto per fare tre esempi). Troppo prevedibili gli sviluppi, perfino i dialoghi. E troppo affrettata la conclusione.
Muori con me di Karen Sander
In una qualsiasi puntata di Derrick avrei trovato una trama più avvincente, complessa e ricca di sorprese. Cito Derrick perché la scrittrice è tedesca, e la storia è ambientata in Germania. Questo romanzo non è affatto difficile da recensire. Non ho dubbi: troppo lungo, troppo noioso, scritto male. Ci sono certi errori nei tempi verbali da mettere i brividi, oltre a cose sul genere “gli” anziché “a loro” e “uscire fuori” (cose che sospetto siano imputabili alla traduzione, visto che si tratta di una tipica “italianata”). E poi c’è la mano di una donna che, in quello che vorrebbe essere un thriller, inserisce a forza una (noiosissima) trama romantica. I dialoghi sono incoerenti (personaggi che esclamano a distanza di un secondo “santo cielo” e “ma cazzo”. Come se non ci fosse differenza, nella caratterizzazione, fra i due modi di dire!). E ancora: tedeschi che esclamano “bingo!” e guidano una Mustang. La trama è scontatissima. Appena viene svelato il “segreto” della protagonista, sai già tutto: sai chi è l’assassino, sai perché uccide, sai come lo fa. Insomma: tempo perso. Troppo tempo perso. Accidenti a me e alla mia fissazione di finire ogni libro che inizio…
Tutto il villaggio lo saprà di Fabio Girelli
A questo punto non so più cosa pensare. Non riesco a trovare uno straccio di scrittore esordiente che non confonda “gli” con “le”. Dev’essere una generazione con un giro scolastico sfortunato. Fatto sta che qui, purtroppo, oltre a questo, c’è anche ben altro. I refusi ci sono, ma non sono fastidiosi. Sono gli errori a impedirmi di prendere sul serio la storia. Confondere, in più di un occasione, “sarebbe” con “fosse”, non è una svista. Ci sono proprio dei problemi grammaticali di fondo. Aggiungiamo il fatto che al 30% della lettura sai già tutto (chi è l’assassino, chi vogliono farti credere che sia, depistandoti, e qual è il movente) e abbiamo il quadro di un’occasione sprecata. Peccato, perché c’erano degli elementi potenzialmente interessanti, come un’ironia intelligente e un paio di personaggi (minori) davvero accattivanti. C’è anche una certa capacità di dosare gli eventi fino alla conclusione, senza affrettare il tutto. Se non ci fossero quegli errori di grammatica, la prevedibilità passerebbe in secondo piano, visto che la lettura sarebbe piacevole. Ma quegli errori ci sono. Dall’inizio, con dei cambi di soggetto errati che confondono la lettura, fino alla fine, con questa frase: “Era arrivato il tempo in cui su tutta quella vicenda, iniziata anni prima, si potesse definitivamente scrivere la parola “fine”. Con un tale uso dei tempi verbali, non posso dare più di una stella.
Scrivere 2.0. Gli strumenti del Web 2.0 al servizio di chi scrive di Luca Lorenzetti
Un manuale ben studiato, incentrato sugli strumenti on line a disposizione degli scrittori.
Molti li conoscevo già, ma qualcuno ha rappresentato una bella scoperta, che proverò a sfruttare. Il testo è organizzato in modo molto razionale, ci sono diverse interessanti interviste a esperti del settore, adeguatamente presentati dall’autore, e nella parte finale vengono riassunti, divisi per capitolo, tutti gli strumenti indicati, con i link ai rispettivi siti. Utile e ben scritto.
Non abbiamo abbastanza paura: Noi e l’islam di Vittorio Feltri
Devo ammettere che l’inizio di questo libro mi è sembrato molto, molto “duro”. Eccessivamente duro, in effetti, perfino per un pamphlet. Proseguendo nella lettura, però, ho capito: si trattava di una strategia. Feltri carica le parole, senza preamboli e fin dal principio, per colpire il lettore, smorzando i toni poco dopo l’incipit. Per lasciare poi spazio a una ricostruzione storica e ai fatti più o meno recenti sul fronte “terrorismo” (processi e condanne, fatti certi che non sono in discussione). Non manca l'analisi di alcuni brani del Corano, che Feltri conosce molto bene per averlo studiato a fondo (“Il Corano letto da Vittorio Feltri” fu pubblicato nel 2010); l’analisi è accompagnata da una veemente difesa dei diritti della donna, che da donna - naturalmente - non ho potuto non apprezzare e condividere. E poi c’è il racconto dell’amicizia con la Fallaci, spesso citata con brani anche abbastanza consistenti, e il cui talento nella scrittura non è mai stato in discussione. Anche questo, però, è un libro scritto molto, molto bene. Un libro impeccabile dal punto di vista stilistico (e ci voleva, dopo questo mese di letture disgraziate!), volutamente provocatorio ma anche oggettivamente coraggioso. Anche solo per il fermo esercizio della libertà d’espressione, che all’autore costa minacce di ogni genere e una vita sotto scorta.
No lo he leido aun
RispondiEliminaGrazie per le post
Baccio molto grande!!!