Ho cercato di starne fuori. Davvero. Perché non mi ritenevo all'altezza di scrivere di un argomento così delicato, e doloroso. Ma mi ritengo all'altezza di scrivere sulle sue conseguenze, almeno su che mi coinvolgono direttamente, che sono davanti ai miei occhi.
Siamo al terzo giorno dopo il vile attacco alla redazione di Charlie Hebdo e dopo l’esecuzione del poliziotto francese che tutti abbiamo visto “in diretta”. E io non ne posso più.
Non posso più starne fuori perché la tragedia che è costata la vita a molte persone, e che voleva sferrare un duro colpo alla libertà di stampa e d’espressione, si è trasformata in un circo mediatico.
Come sempre accade, abbiamo scoperto di avere sessanta milioni di politologi, di storici, di esperti in terrorismo e relazioni internazionali.
E come sempre, prima ancora che ci fosse il tempo di piangere i morti o di seguire con il fiato sospeso l’assedio alla tipografia e al supermercato seguiti alla strage, la rete si è scatenata.
E non solo, purtroppo, con la solidarietà per le vittime dell’attacco.
Ci si poteva limitare a condividere quel “Je suis Charlie” che significava, semplicemente, partecipare al dolore dei familiari e degli amici, testimoniare il proprio rispetto per chi è stato ucciso mentre faceva il suo lavoro e dichiararsi sostenitori della libertà d’espressione.
Ma no, certo, non ci si poteva fermare qui.
Bisognava fare di più. Bisognava andare oltre.
Perché tutti - ma proprio tutti - hanno improvvisamente sentito il bisogno di criticare, giudicare, provocare, polemizzare. Tanto per partecipare al circo mediatico.
Molti hanno deciso di doverci proprio spiegare come dovevamo sentirci o cosa dovevamo pensare (e via ai vari “Io non sono Charlie”, “Voi non siete Charlie”, “Charlie non siamo noi” e compagnia bella).
C’era da aspettarselo, certo, che giornalisti, scrittori e politici si scatenassero.
Ma sentivamo davvero il bisogno di ogni sciuramaria (o sciormario) del web pronto a dare la sua versione dei fatti con quella bella dose di assolutismo che non ammette repliche?
No. Non lo sentivamo.
Libertà d’espressione significa dire la propria, certo, ma da qui a strumentalizzare una tragedia ce ne passa.
Perché io questo ho visto: una grande, pesantissima, offensiva strumentalizzazione.
Insieme a quell’ipocrisia che scende sempre in campo quando ci si sente in dovere di dire che no, per carità, spiace per i morti ma adesso non esageriamo. E no, per carità, non facciamo di tutta l’erba un fascio. E no, ma scherziamo, i musulmani non sono tutti terroristi.
Ma certo che non lo sono!
Così come gli italiani non sono tutti mafiosi e le bionde non sono tutte stupide.
Eppure fra status su Facebook e tweet, pare che tutti dovessero precisarlo.
Scoprendo l’acqua calda: la pioggia è bagnata, l’inverno è freddo, e i musulmani non sono tutti terroristi. Possiamo passare oltre l’ovvio, ora?
Perché gli scopritori dell’acqua calda, guarda caso, ripetono da tre giorni che i musulmani non siano tutti terroristi mentre tre giorni fa condividevano link o scrivevano status affermando che i vegani sono tutti coglioni, che gli animalisti sono tutti estremisti e che quelli che guardano i telefilm sono tutti deficienti. E via dicendo.
Siamo sempre lì: i luoghi comuni non muoiono mai a meno che la moda del momento - cioè mettersi in mostra con post politically correct - lo richieda.
E allora sì che diventano tutti moderati, tutti bravi a ricordarci che non bisogna mai generalizzare.
Io non ci sto più. E me li segno, quelli che generalizzano su tutto il resto ma ci tengono a sottolineare che non fanno di tutta l’erba un fascio… Questa settimana.
La settimana prossima, si vedrà.
Perché pare che dipenda dal tipo di erba, e non dal fatto di considerarla o meno tutta uguale…
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