venerdì 5 febbraio 2016

La Polee Bookaholic: i libri di gennaio 2016 (parte 2)

Credevo che avrei letto diversi altri libri, oltre a quelli che hanno fatto parte della prima metà del mio mese da lettrice. Invece ne ho letto solo uno, lungo e impegnativo. Quasi 800 pagine per un premio Nobel letterario, assegnato nel 2015 alla giornalista e scrittrice Svetlana Aleksievic.
Ecco la mia lunga recensione di questo libro difficile, ma ricco di spunti di riflessione.


Freud lo spiegava con l’incapacità di continuare ad avere un’identità dopo la scomparsa del riferimento su cui quella stessa identità era stata costruita.
L’essere “volontariamente complice” di uno stile di vita che ti costringe a condizioni difficili, forse, per noi profani è più semplice da comprendere quando è riferito all’orizzonte psicologico di alcuni casi limite, come i rapimenti a lungo termine. Diversamente, è possibile accettare una spiegazione così semplice? Una definizione così semplice e diretta, come quella data da Freud, per la massificazione ideologica e comportamentale di un intero popolo? Sì. Almeno dopo la lettura di Tempo di seconda manoLa vita in Russia dopo il crollo del comunismo di Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura nel 2015.
Un Nobel assegnato a uno straordinario – e certamente durissimo – lavoro di ricerca. Ma anche un Nobel assegnato al tentativo di raccontare al mondo cose che forse non sapeva, e di aiutarlo a capirle.
La Germania nazista è stata analizzata per decenni da storici, psicologici, sociologi e antropologi. Sebbene sia più complesso di così, molti si sono spiegati il fenomeno con il famoso “non lo sapevo”. Il popolo fondava il suo odio e i suoi pregiudizi su un’idea politica deviata, che nascondeva (o negava, anche di fronte all’evidenza se la situazione lo richiedeva) la realtà dei campi di concentramento. Un tedesco che affermava di ritenersi superiore a un ebreo era ben diverso da un tedesco che lavorava attivamente alla “soluzione finale”. Se il primo poteva non sapere – o raccontare a se stesso e agli altri di non sapere – il secondo aveva la realtà davanti agli occhi. Ci sono sempre due tipi di complicità, quando un orrore di queste proporzioni arriva a compiersi: ci sono quelli che fanno finta di niente (“Non lo sapevo”, “Non ci credevo”, “Non poteva essere vero”) e quelli che agiscono giustificando le loro azioni (“Stavo solo obbedendo agli ordini”, “A quei tempi si faceva così”, “Era la legge”).
Anche la situazione del popolo sovietico raccontata dalla Aleksievic si fondava su un ideale politico deviato. Con la differenza che tutti sapevano come si viveva nei gulag, perché molti tornavano. Sopravvivevano. Tiravano avanti, sopportando orrori indicibili, anche per molti anni. A colpirmi più di tutto il resto, fra storie da far accapponare la pelle e racconti che costringono a chiedersi come sia stato possibile condizionare un popolo così a lungo, è stata proprio la determinazione del popolo sovietico. La tempra di gente che è sopravvissuta a dieci, quindici o vent’anni di lavori forzati, di campi di prigionia, d’inferno in terra, per poi tornare a vivere. In molti casi, tornando a rispettare lo stesso regime che a quella vita d’inferno l’aveva costretta.
Il popolo sovietico si è piegato a un ideale malato che lo privava di qualsiasi libertà al fine di controllarlo, di impedirgli di pensare autonomamente e di entrare in contatto con realtà diverse. Il frutto di questo controllo è stato un popolo che si è piegato al regime perché “era giusto così”.
Perfino l’immensa ondata di suicidi dovuta al crollo del comunismo si legava a un ideale malato, ovvero al rifiutarsi di vivere senza quelle restrizioni alla libertà che erano sempre esistite. Perché se non sai cosa sia la libertà, quando ce l’hai… Non sai cosa fartene.
Ho acquistato e letto Tempo di seconda mano “alla cieca”. Non ne sapevo nulla. Così, quando ne ho affrontata la lettura, mi aspettavo un saggio, una ricostruzione storica, un racconto con un inizio, uno svolgimento e una fine. Invece mi sono trovata subito immersa in una raccolta di testimonianze. Ottocento pagine di testimonianze.
Testimonianze di vite così diverse dalla mia… Testimonianze dure, incredibili, a volte incomprensibili. Racconti di vite straordinarie, di vite spaventose, di vite troppo brevi, di vite lontane come la Luna rispetto al mio modo di pensare e alla mia educazione. E che proprio per questo mi hanno tanto colpita.
Eroi di guerra spediti nei lager al ritorno dalla guerra perché, essendo stati catturati dal nemico, erano “traditori”. Uomini gentili miracolosamente sopravvissuti ad anni di lavori forzati, e rimasti gentili. Vecchi e incrollabili sostenitori del partito incapaci di adattarsi al benessere. Uomini ingegnosi che sono sopravvissuti grazie a creatività e forza di volontà. Vite di donne che sono andate avanti solo per amore…
Svetlana Aleksievic lascia che siano loro, i protagonisti di tutte queste vite, a parlare. E lo fa senza intervenire troppo sul testo, mettendoci di fronte allo stream of consciousness di un intero popolo.
Quando uno studente viene condannato a dieci anni di lager per aver raccontato una barzelletta su Stalin, inizi a capire che l’ideologia politica in certi casi è più una questione di fede: si crede e basta. Senza farsi domande. Mai. Perché le domande portano solo altro dolore e altra paura a gente che da decenni viveva già nel dolore e nella paura.
Con una straordinaria capacità d’adattamento, il popolo sovietico ha resistito anche nelle condizioni più difficili. C’erano persone che nei lager nascevano e crescevano: cosa ti sembra, il mondo, quando l’unica vita che conosci è questa? Ti sembra un mostro. Un mostro terrificante in cui non hai più alcun punto di riferimento. Un mostro che si chiama Capitalismo e vuole inglobarti, trasformandoti in qualcosa che non sei e non sarai mai.
Tempo di seconda mano ci racconta che le nuove generazioni si sono adattate a un nuovo stile di vita, così come quelle precedenti si erano adattate a non avere nulla. Perché, alla fine, è proprio così: senza il riferimento della libertà, noi non sapremmo più chi siamo. E il popolo sovietico non lo sapeva più senza il regime.
Per questo solo una piccola, minima parte dei racconti raccolti dalla Aleksievic restituisce quelle che per noi, che abbiamo studiato la storia ma non l’abbiamo vissuta, erano già certezze: Stalin non era diverso da Hitler. Non c’è differenza fra le esecuzioni pubbliche di chi provava a ribellarsi alla discriminazione e alla prigionia e di chi diceva una parola di troppo sul dittatore di turno. A noi appare scontato, ma per chi sotto una dittatura è nato e cresciuto, è tutta un’altra storia.
L’uomo è sempre stato molto bravo a studiare mezzi per controllare altri uomini. L’Unione Sovietica ha raggiunto l’apoteosi del controllo, è arrivata in vetta nella scalata all’abolizione del libero pensiero. E ci è rimasta molto, molto a lungo. Tempo di seconda mano lo testimonia attraverso le voci di persone che si aprono con l’autrice e con noi, aiutandoci a capire il loro mondo e suscitando la nostra commozione, la nostra empatia, il nostro dolore e la nostra rabbia per ciò che hanno dovuto subire.
E una domanda, “la” domanda, si fa strada nella nostra mente: come sarebbe il mondo, oggi, se l’uomo avesse applicato il suo ingegno a strumenti per fare del bene, anziché a mezzi per mascherare sotto un’ideologia politica ambizione, brama di potere, odio e sete di denaro?
Non lo sapremo mai. Ma almeno adesso sappiamo cos’è successo. Nella speranza che non accada mai più.

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