Eccomi al primo post letterario dell’anno, con le ultime letture di quello che si è appena concluso.
Visto che sono in tema, ne approfitto per dirmi basita (F4: i fan di Boris capiranno) dall'uscita de "I distillati": bigini - perché questo sono, sebbene la pubblicità lo neghi - di romanzi celebri composti da una selezione del testo integrale. Negli spot li presentano come libri da leggere "nel tempo di un film". Il che significa: tieni, leggiti un malloppone da 800 pagine in due comode ore, tanto ho tagliato il superfluo.
Come se alcuni fra i libri più amati degli ultimi anni, e non solo, fossero solo questo: mallopponi. Come se condensare un libro di 600 pagine in 200 fosse un’operazione degna di nota. Soprattutto quando quel libro di 600 pagine è stato letto da milioni di persone in tutto il mondo, che ne hanno detto di tutto tranne “Troppo lungo”. Già le statistiche sulla lettura in Italia sono agghiaccianti, se usiamo anche stratagemmi come questi è la fine.
Io mi auguro e vi auguro un anno ricco di letture vere, integrali, intense, gradite o sgradite ma comunque in grado di arricchirci. Come alcune di quelle che vi presenterò fra poco, nelle mie nuove recensioni, come sempre rigorosamente spoiler free.
Sottomissione di Michel Houellebecq
Questo romanzo mi resterà in mente a lungo, soprattutto per due motivi: perché lo stavo leggendo quando gli attentati del 13 novembre hanno sconvolto Parigi e l’Europa, e perché ho finito di leggerlo proprio il giorno delle elezioni che avevano decretato un forte aumento nella percentuale dei voti al Front National di Marine Le Pen. Due elementi presenti nella storia di Houellebecq: il terrorismo e i protagonisti politici di oggi, veri e reali come la Francia descritta dal romanzo. Una Francia che si trova di fronte a un grande cambiamento quando, a conquistare il potere, è la Fratellanza Musulmana.
Ho letto questo libro, come tutti gli altri credo, incuriosita dal fatto che se ne fosse parlato molto. E forse proprio per questo avevo delle aspettative troppo alte. Fatto sta che l’ho trovato deludente. Provocatorio, come mi era stato preannunciato? Sì, certo, ma non fino in fondo. Frenato, in un certo senso. E non senza un autocompiacimento che da lettrice ho trovato fastidioso. Per non parlare delle volgarità - presenti solo quando si racconta la relazione (perché di storia d’amore proprio non si può parlare) del protagonista con una donna - che stonano con tutto il resto dell’approccio linguistico molto “sostenuto” e anche un po’ pretenzioso. Da donna, non posso non notare, e non solo per la scelta di termini volutamente volgari, la misoginia che permea il testo e che sembra, più che un orientamento del protagonista dettato dall’evoluzione storico-politica del suo Paese, un’opinione del romanziere. Magari non mi sono addentrata abbastanza nella lettura per cogliere la volontà di infastidire. Magari sono caduta in una trappola dello scrittore. Ma non ho intenzione d’indagare sulla questione: non lo rileggerei, questo libro. Nemmeno se me lo chiedessero come favore. E, sebbene la curiosità di confrontarmi con altre impressioni sia piuttosto marcata, francamente non mi sento di consigliarne la lettura.
Virus. Lasciatevi contagiare dalla paura di Sarah Langan
Non è per niente come me lo aspettavo. Fa più "The Strain" che "Contagious", per capirci. E fa anche molto “Stephen King”, come impianto, come tematiche e perfino come ambientazione. “Fa” Stephen King, però non è Stephen King.
Non che non sia un romanzo tecnicamente ben scritto e ben strutturato. Ma non è completo. Manca qualcosa. Manca l’approfondimento psicologico che fa dei personaggi di King persone vere, reali, che ti perseguitano per sempre anche dopo che hai chiuso il libro in cui li hai incontrati. Mancano l’azione, quella vera, e il perfetto equilibrio nel ritmo. Mancano il volersi ispirare a illustri predecessori aggiungendo qualcosa di nuovo e di personale e il lasciare il segno con un’impronta originale. Per una scrittrice di horror, scegliere di ambientare una storia nel Maine è una bella sfida. La Langan non l’ha superata. Lascia il lettore insoddisfatto, reduce da una lettura da spiaggia, senza nessun approfondimento interessante. Senza risvolti memorabili. Senza nulla, ma proprio nulla, che cancelli l’impressione di aver voluto copiare illustri predecessori.
Avarizia: Le carte che svelano ricchezza, scandali e segreti della chiesa di Francesco di Emiliano Fittipaldi
Gli scandali economici della Chiesa non sono un mistero. In un modo o nell’altro, tutti noi avevamo già sentito parlare dei superattici, delle ruberie, delle irregolarità, dell’avarizia (appunto, e non è un caso che Fittipaldi abbia scelto uno dei vizi capitali come titolo per questo suo lavoro) e di tutto il resto: cose apertamente in contrasto con i dettami della Chiesa, che predica onestà, altruismo e generosità.
Eppure, pur non essendo digiuna dell’argomento, ho letto cose che mi hanno molto turbata. Cose da mettersi le mani nei capelli. Perché un conto è sapere che anche gli alti prelati della Chiesa, visto che sono uomini come tutti gli altri, rubano e mentono. Un altro conto è trovarsi di fronte ai numeri. Ai precisi rendiconti su cosa si sono comprati con le offerte della domenica (vai a fare beneficenza, vai…). Allo sfruttamento della fiducia dei credenti e alla pianificazione di un piano perfetto per fare soldi. Ai costi (migliaia di euro) per un mobile o una veste di chi fa in modo di vivere nel lusso più sfrenato mentre la gente che lo ritiene un simbolo di Dio fa i salti mortali per mettere in tavola un piatto di pasta. Sono cose che fanno impressione, e ci mancherebbe che non fosse così. Sono momenti che fanno riflettere su quanto e come la corruzione sia ovunque, perfino fra le righe di una preghiera recitata con convinzione solo apparente.
Fra donazioni e ospedali, fra conti correnti segreti e compravendite immobiliari, fra un accordo e un segreto, i princìpi più puri cadono sotto i colpi della disonestà. Che non è solo quella degli uomini “comuni”: è quella di uomini che si approfittano della buona fede altrui. Il che, se possibile, rende la disonestà ancora più… disonesta.
9 giorni di Gilly MacMillan
Come impianto mi ha ricordato molto “La ragazza del treno”: un caso di scomparsa e il racconto degli eventi da parte di diversi personaggi coinvolti nella vicenda, con diversi punti di vista. A differenza de “La ragazza del treno”, però, qui i punti di vista differenti sono efficaci: la madre di un bambino perso di vista, l’ispettore che investiga sul caso e la psicologa che lo segue per conto del dipartimento sono voci ben definite, verosimili, basate su stili precisi e diversificati che li rendono credibili. E poi c’è un elemento in più a fare davvero la differenza: la rete, coi suoi blog e i suoi social network. Il rapimento, le scomparse e i misteri ai tempi di internet. Le opinioni non richieste della persona comune che accusa, infama, insulta senza sapere nulla delle persone coinvolte. Il circo mediatico che, come sempre, sbatte il mostro in prima pagina. E gli insoddisfatti, a livello personale o lavorativo, che fanno il resto: bugie, informazioni condivise con chi non si dovrebbe, manipolazioni e distorsioni della verità presente e passata. Tutto questo rende “9 giorni” un romanzo avvincente, e incredibilmente attuale.
Ziofà - Dialoghi sussenso della vita, le tipe e altre cose, porcoddue di Jacopo Masini
Non avrei potuto non amare Ziofà: sono una di quei fortunati che hanno assistito in diretta alla sua nascita, nei dialoghi su Facebook, e che hanno insistito perché Jacopo Masini li tramutasse in un libro. Con un solo scopo: condividere con tutti la profonda verità contenuta nelle “riflessioni” di Zio e Frate (e nelle parole della Tipa). Attraverso dialoghi esilaranti, Zio, Frate e la Tipa ci raccontano un pezzo di noi, del nostro Paese, della nostra vita quotidiana. Sono lo strumento di uno scrittore per parlare di amore, lavoro, amicizia, famiglia e Italia attraverso personaggi che non spiccano per acume, ma che non hanno certo paura di cimentarsi nei discorsi più impegnativi sul senso della vita. E su qualsiasi altro argomento che per qualche ragione attiri la loro attenzione. Non sono nemmeno giovanissimi come potrebbero sembrare (citano Pippo Baudo e Mike Bongiorno, cosa che un ventenne non farebbe), eppure funzionano alla perfezione nel ruolo dello sguardo “fresco” su un Paese vecchio. Ho solo una rimostranza da fare all’autore: quando sono arrivata alla fine, ci sono rimasta malissimo. Questo libro avrebbe dovuto essere almeno… Tre volte più lungo di così! (cit.)
Oltre le sbarre - Le carceri italiane viste da un giovane agente penitenziario di Dario Esposito
A volte, per caso o per fortuna, t’imbatti in un libro che ti sorprende davvero. Questa è una di quelle volte. Appena voltata l’ultima pagina di “Oltre le sbarre”, ho allungato la mano e ho detto a mio marito: “Leggilo”. Se potessi, farei la stessa cosa con voi. E se non posso passarvi il libro, posso dirvi: leggetelo.
Dario Esposito è un poliziotto penitenziario, ma è anche uno scrittore. Con la semplicità e l’immediatezza di un linguaggio comprensibile a tutti, eppure in qualche modo sempre carico di poesia, ci racconta la sua vita dentro e fuori dalla carceri in cui ha lavorato e tuttora lavora.
Dentro e fuori: “Due mondi, anche se ho una vita sola”.
Con la divisa Dario ha indossato i pregiudizi, i luoghi comuni, la facilità di parlare di qualcosa che in realtà non si conosce. Perché siamo sempre tutti pronti a guardare e giudicare, sebbene non sappiamo - di fatto - come sia la vita dentro a un carcere. L’unico modo per saperlo è finirci - cosa da non augurare - oppure lavorarci. O magari leggere questo libro. I luoghi comuni vengono sfatati e la dignità di un uomo con un grande senso del dovere e della giustizia si fa interprete di una realtà dai contorni leggendari, ma dalla grande concretezza. Dario Esposito ci racconta la sua storia senza retorica, senza autocelebrazioni, senza nascondere le paure e le incertezze che hanno accompagnato il suo percorso di crescita, come uomo e come poliziotto. Un uomo e un poliziotto che rischia la vita per un ideale, per un lavoro in cui crede e che troppo spesso finisce sbattuto in prima pagina solo quando qualcosa va male. Mai vengono celebrati gli uomini che impediscono a quel qualcosa di andare male. Forse perché è il loro lavoro, certo, benché non sia un lavoro come tutti gli altri.
Dario Esposito e i suoi colleghi sono personaggi veri di un mondo difficile, che in questo libro ci viene svelato. E che lascia la voglia, a lettura finita, di ringraziarli per il loro lavoro. Perché è “solo un lavoro”, per alcuni, ma per molti altri fa la differenza fra la vita e la morte, fra la dignità e l’umiliazione, fra la comprensione e l’indifferenza.
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