lunedì 9 maggio 2011

Il festival del dolore. Il festival dell'ipocrisia.

Al momento non avevo realizzato.
So solo che ho letto un sms, poi ho visto un articolo su un sito, poi ho parlato con qualcuno.
So di aver avuto un attacco di panico, di essere uscita per strada, di aver urlato.
So di non aver chiuso occhio e di aver continuato ad avere attacchi di panico, uno ogni mezz'ora, più o meno. Per tutta la notte.
Pare sia normale. Dicono che ci voglia del tempo, per realizzare.
Dicono che deve passare lo shock.
Hanno ragione. Ci ero già passata con la morte di mio padre, e in effetti lo ricordo.
Ci metti un po' a realizzare.
Ma stavolta è stato diverso.
Non ci credevo. Ti guardavo lì, disteso, ti guardavo con i miei occhi. Eppure non ci credevo.
Avevo bisogno di capire se l'incubo si sarebbe trasformato in realtà, di capire se era vero.
Di credere.
Sono passate più di due settimane e ora sì, ci credo.
Lo so che il mio fratellone non c'è più.
Lo so che la persona della mia famiglia alla quale somiglio di più, con la quale c'era davvero intesa, non c'è più.
So che il 23 aprile c'è stato davvero l'incidente in cui hai perso la vita.
So che qualcuno è uscito da un parcheggio laterale, dietro una curva, e facendo inversione ha fatto sì che tu, arrivando in moto, non potessi far altro che finirgli addosso.
Lo so.
Ma accettarlo... Quella è tutta un'altra storia.

Guardo le tue foto nelle cornici, le foto che ho fatto stampare per ricordarmi cosa è successo perché quel maledetto "effetto alzheimer" che mi assaliva ogni mezz'ora nei primi giorni, e che ora mi sconvolge ogni mattina, al risveglio, si andasse affievolendo. Perché il mio cuore e la mia mente la smettessero di illudersi, di ricordarsi ogni volta, daccapo, quello che è successo, e perché accettassero di prendere atto del fatto che tu non ci sei più.
Guardo le tue foto e sì, me lo ricordo.
Lo so che sei morto. Ecco, vedi? Riesco anche a scriverlo.
Ho passato due giorni nella camera mortuaria con te, sono andata al tuo funerale, ti ho accompagnato al cimitero.
Lo so...
Ma non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio, accidenti.
Non voglio più vedere la mia mamma piangere.
Non voglio più vedere i tuoi figli senza di te.
Non voglio più sentire tua moglie che cerca, disperata, un modo per andare avanti.
Non voglio.
Non voglio!
Non voglio pensare che non sarai più il primo ad arrivare al Pronto Soccorso la prossima volta che una delle mie stramaledette malattie mi ci farà finire.
Non voglio pensare che la tua volontà di tenere certe persone fuori dalla tua vita venga indegnamente calpestata. Ogni giorno.
Non voglio pensare al festival dell'ipocrisia al quale noi che ti volevamo bene abbiamo dovuto assistere.
Non voglio pensare alla mancanza di rispetto e di vergogna che ha reso questo già insopportabile fardello ancora più intollerabile.
Non voglio pensare a quanto soffriresti se potessi vedere cosa dicono, cosa scrivono, cosa fanno...
Non voglio.
NON VOGLIO!

Maledizione, Fabio!
Non voglio pensare che non accompagnerai più tua figlia a scuola, magari facendole fare tardi perché ti sei riaddormentato per l'ennesima volta, come facevi con me.
Non voglio pensare che non la porterai ai concerti, al cinema, al suo esame di maturità, al suo matrimonio, come hai fatto con me.
Non voglio pensare che non le insegnerai a bere a canna, a fare le scale di corsa, a fare i testacoda con il foglio rosa, a scegliere quale musica ascoltare e su quali computer lavorare, come hai fatto con me.
Non voglio  pensare che non le telefonerai per raccontarle una barzelletta, riattaccando subito dopo, come facevi sempre.
Non voglio pensarci.
Anzi: non lo voglio accettare.
Se esiste una ricetta per farlo, qualcuno me la mandi.
Per favore.
Perché così sembra impossibile.
E ogni giorno è più difficile.
Perché ogni giorno è un nuovo giorno senza di te.
E io non voglio accettarlo...
Anche se so che non posso farci nulla.

Allora non mi resta che aspettare: credere che tu ci sia ancora, da qualche parte, pronto a vegliare sulla tua famiglia, è l'unico pensiero che mi manda avanti.
Ma io non ho mai creduto molto, come te. Esattamente come te.
Così aspetto un segno.
Un qualsiasi segno della tua presenza.
Un segno che faccia andare almeno una cosa per il verso giusto, e che mi faccia pensare che ci sia di mezzo il tuo zampino.
Spero che arrivi.
Ho bisogno che arrivi.
Perché senza quel segno dovrei pensare che sia tutto finito.
Che dopo un maledetto incidente non ci sia più nulla.
Solo lacrime e ricordi.
Insieme alla certezza che l'unica cosa che posso fare per te, ora, è aiutare la tua famiglia.
Lo farò. Te lo prometto.
Farò tutto quello che è in mio potere.
Ma tu... dammi una mano, fratellone.
Come hai fatto tante volte.
Dammi una mano.